All’interno del ciclo Scorie Microcosmiche, la serie Strappi spinge ancora più a fondo l’indagine sulla relazione tra il micro e il macro, tra ciò che viene scartato e ciò che, inaspettatamente, rivela nuove dimensioni di senso. Questi lavori nascono dai fogli adesivi dei rotoli leva pelucchi, utilizzati non sugli indumenti, ma su superfici come tappeti e pavimenti, così da raccogliere la più ampia varietà possibile di micro-residui del vissuto umano. Polveri, capelli, peli e frammenti invisibili di cellule morte rimangono intrappolati sulla superficie adesiva, creando un’aggregazione caotica e casuale, in cui gli elementi si stratificano l’uno sull’altro.
L’uso della lente d’ingrandimento diventa allora un atto di svelamento: ciò che a occhio nudo appare come un accumulo informe, si rivela una composizione complessa, una sorta di paesaggio in cui l’infinitamente piccolo si espande fino a evocare dimensioni cosmiche. Come nelle altre serie di Scorie Microcosmiche, il lavoro non si limita a un’indagine estetica dello scarto, ma riflette sulle inibizioni e sulle resistenze dell’individuo. L’adesione forzata degli elementi alla superficie adesiva diventa metafora di ciò che, nella vita, resta impresso su di noi, di ciò che raccogliamo inconsapevolmente e che ci definisce, anche se preferiremmo ignorarlo.
Il lavoro risulta pienamente coerente con l’opera di Piero Manzoni, nel cui studio è stato esposto l’intero ciclo Scorie Microcosmiche.
Come nelle altre serie, è il gesto dell’osservatore a giocare un ruolo attivo: avvicinarsi, indagare, mettere a fuoco significa affrontare ciò che solitamente si tende a rimuovere. La percezione si ribalta, e quello che inizialmente appare come caos si trasforma in una rivelazione, in un viaggio tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente vasto, tra il personale e l’universale.
Scorie Microcosmiche, Strappi
13 x 9,5 cm cad.
Considerati antiestetici, antigienici, alle volte superflui e per tanto imbarazzanti, provenienti da qualsiasi parte del corpo, sia i capelli che i “peli” hanno da sempre avuto un impatto differente nell’opinione dell’uomo. Ad esempio il “pelo pubico”, considerato come uno dei caratteri sessuali più importanti, segna la maturità sessuale di entrambi i sessi e in particolar modo segna la fertilità e la carica erotica del sesso femminile. Difatti già dalle figure idealizzate delle donne del Rinascimento i peli venivano rappresentati solo da una ombra, poiché già da allora il pelo pubico femminile fu associato a opere pornografiche, così è stato fino al 1866 con L’origine du monde di Courbet, in cui i tabù sessuali continuarono a persistere fino ai nostri giorni. Nonostante negli anni Sessanta si cercò di superare questo tabù del “pelo pubico”, personalità come la stilista Mary Quant fece sapere che si era tagliata i peli pubici a forma di cuore, oppure negli anni Ottanta, con la serie di Helmut Newton denominata “Big Nudes” (1981), il quale mostrava modelle con tacchi alti e peli pubici piuttosto imponenti. Ancora oggi si associano i peli, sia del pube che i capelli a un qualcosa da celare o da cui ognuno di noi se vuole liberarsi dal male se ne deve disfare.
Come la Gugliotta, anche altri artisti prima di lei hanno indagato e persino usato come mezzo, come soggetto e fatto oggetto delle proprie opere questi residui di corpo. Già dall’opera precorritrice Déjeuner en fourrure (1936) di Oppenheim a Behold (2009) di Sheela Gowda, oppure all’opera Hair Necklace (1995) di Mona Hatoum in cui grovigli di peli e capelli diventano oggetti da esperire esteticamente, in quanto sono diventati sculture, istallazioni, soggetto principale di una fotografia e forme libere e iconiche come pitture informali e segniche alla Dubuffet.
Danilo Lo Piccolo